Pillole di psicologia
La solitudine: una cara amica da ospitare, e non un fantasma da sfuggire
“La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi”
José de Sousa Saramago
Edgar Degas, L’assenzio (L’absinthe), 1875-1876.
Nella nostra epoca sembra che il sentimento della solitudine si sia diffuso a macchia d’olio. È come se le persone non abbiano imparato a stare da sole, o diversamente, lo abbiano imparato ma anche disimparato. In questa società, per molti, stare da soli è fonte di grande disagio, vuol dire sentirsi perseguitati dal sentimento della solitudine, che è un sentimento talmente angosciante e spaventoso da spingere le persone a sbarazzarsene a qualsiasi costo, anche al costo di avere una spiacevole compagnia, pur di non stare da soli. Un proverbio dice “meglio soli che male accompagnati”, ma sembra che oggigiorno si sia trasformato in “meglio male accompagnati che soli”.
Ciascuno trova il suo modo di sfuggire alla solitudine. Qualcuno si butta a capofitto sul lavoro, qualcuno invece si rifugia nel fantastico mondo dei videogiochi, qualcun altro moltiplica le amicizie sui social network, e qualcun altro ancora porta avanti amicizie o relazioni sentimentali non soddisfacenti. Sono tutti escamotage che risolvono il problema solo in apparenza, poiché il sentimento della solitudine, seppur nascosto dietro una tenda, rimane presente, e non manca di fare capolino da lì dietro, facendo riaffiorare regolarmente una spiacevole angoscia.
La solitudine, più che essere trattata come un fantasma da cui sfuggire, dovrebbe essere trattata come una cara amica da ospitare, un’amica sincera e autentica. È in questa prospettiva che si può trarre giovamento dal sentimento della solitudine, accogliendola e utilizzando le informazioni e i suggerimenti che viene a regalarci. Infatti, accogliere la solitudine, invece di sfuggirla, vuol dire stare in compagnia di se stessi, ascoltare il proprio dialogo interiore, confrontarsi con i propri pensieri e le proprie emozioni, guardarsi allo specchio e fare un bilancio di se stessi e della propria vita, e tutto questo è una grande opportunità per migliorarsi, e perché no, anche per correggersi e porre rimedio ai propri errori.
Qual è il problema?
Il problema sorge quando la solitudine ci mette davanti ad uno specchio che ci rimanda un’immagine non gradita, riflette un’immagine di noi stessi e della nostra vita che non è quella desiderata. Ci fa vedere i nostri fallimenti e le nostre mancanze, sia in termini personali che relazionali, ci fa vedere le nostre difficoltà e i nostri punti deboli, e di fronte a tutto ciò si sperimenta un grande malessere, un vuoto esistenziale, crollando vertiginosamente il proprio valore e quello della propria vita. E tutto ciò è talmente difficile da tollerare e accettare, che non si pensa ad altro che a qualsiasi cosa che possa riempire quel vuoto insopportabile, pur di sentirlo. Ma siccome questo vuoto non è un “vuoto qualsiasi”, non può essere colmato con “qualsiasi cosa”, se non temporaneamente, infatti, basterà poco perché torni a farsi sentire, e anche più forte di prima. Riempirlo con qualsiasi cosa è solo un “tappabuchi”, e non la soluzione al problema.
Quando si parla di solitudine non si intende solo quella fisica, di quando ci si sente soli, senza una compagnia con la quale condividere la propria vita e le proprie esperienze, ma anche, e soprattutto quella emotiva, di quando pur avendo al proprio fianco delle persone care con le quali stare in compagnia, in realtà ci si sente soli ugualmente, perché non ci si sente amati, ascoltati, capiti, accettati, stimati, rispettati e apprezzati. Anzi, in realtà, il sentimento della solitudine è più un’esperienza emotiva che fisica, ha poco a che fare con lo stare da soli fisicamente, perché si può provare anche stando in mezzo a tanta gente, e perché ci si può sentire felici e sereni anche stando da soli. È un sentimento associato al sentirsi scollegati da ciò che ci circonda, dall’ambiente esterno e dagli altri. È come se ci si trovasse su un’isola, senza ponti che possano collegare con altri territori e con altre persone.
Vivere con così grande angoscia lo stare da soli ha sicuramente delle basi nelle memorie delle proprie esperienze personali e relazionali e nei propri apprendimenti.
La memoria è una capacità fondamentale per definire la nostra personalità e la nostra vita. Le esperienze che facciamo nella nostra vita diventano dentro di noi i nostri ricordi, che a sua volta diventano il racconto di chi siamo e di com’è la nostra vita. Ciò vuol dire che aver vissuto, ripetutamente, esperienze nelle quali fosse mancata la presenza di qualcuno al nostro fianco per rassicurarci, consolarci e calmarci quando servisse, ha sicuramente contribuito ad associare alla solitudine una connotazione angosciante e ansiogena. La memoria in questi casi ha conservato dei ricordi nei quali si ripete frequentemente l’associazione di sofferenti emozioni alla condizione di stare soli, ed ecco che in seguito trovarsi da soli può riattivare inconsciamente nella memoria questi ricordi e quindi rievocare anche le spiacevoli emozioni di un tempo, il senso di insicurezza, di vulnerabilità e persino di pericolo.
Anche gli apprendimenti sono essenziali per definire chi siamo e come ci comportiamo. Alcuni li facciamo consapevolmente, imparando certe cose con sforzo attivo e impegno volontario; altri invece li facciamo in maniera inconsapevole, imparando certe cose per esperienza, senza uno sforzo attivo e volontario. E tutto ciò che impariamo diventa il nostro patrimonio di risorse per vivere ed esperire il mondo. E nel caso delle persone che soffrono di solitudine, è probabile, che lo scollegamento che avvertono con l’ambiente esterno si possa rintracciare nel non aver allenato abbastanza il muscolo dell’empatia. L’empatia è la capacità di mettersi in contatto con il vissuto altrui, di porsi nella prospettiva dell’altro, ovvero, in altri termini di mettersi nei panni dell’altro, ed è una capacità che come tante altre è frutto di una grande e importante conquista. Essere empatici vuol dire impegnarsi per comprendere l’altro, i suoi pensieri, le sue emozioni, il suo punto di vista, e per fare questo è necessario essere disposti a mettere per un po’ in secondo piano il proprio punto di vista, così da sperimentare quello dell’altro, e così da creare un ponte di collegamento con l’altro. E può capitare che alcune persone non abbiano esercitato a sufficienza questa capacità, e abbiano la tendenza a rimanere rigidamente incollate al proprio punto di vista, senza concedersi l’opportunità di metterlo un po’ in pausa per connettersi maggiormente con l’altro. Ed ecco che, essendo carente in loro questa capacità empatica, diventa carente la capacità di creare collegamenti con il mondo esterno e con gl’altri.
Alcuni studi neuroscientifici condotti da un noto studioso della psicologia della solitudine, John Terrence Cacioppo, un grande psicologo che è stato direttore del Center for Cognitive and Social Neuroscience all’Università di Chicago, chiariscono cosa accade a livello cerebrale quando si vive in uno stato di isolamento sociale e di solitudine.
Uno studio pubblicato nel 2009 sul Journal of Cognitive Neuroscience riporta i risultati della prima ricerca che, utilizzando la fMRI, ha combinato le neuroimaging con il comportamento sociale, analizzando la correlazione tra il sentimento della solitudine e il comportamento di isolamento con l’attività cerebrale. I due studiosi che hanno condotto la ricerca, John Terrence Cacioppo e Jean Decety, hanno individuato due gruppi di soggetti, un gruppo composto da persone che vivono isolamento e solitudine, e un gruppo socialmente attivo e non sofferente di solitudine. Hanno poi analizzato la loro attività cerebrale durante l’osservazione di alcune immagini raffiguranti persone in situazioni piacevoli e spiacevoli. Ebbene, questo è quanto hanno riscontrato:
Lo striato ventrale è un’area del cervello molto importante nei processi di apprendimento, e nelle gratificazioni primarie, come l’assunzione del cibo, ma anche nelle gratificazioni secondarie, come la disponibilità di soldi, ma anche nelle gratificazioni sociali e nel sentimento dell’amore. La giunzione temporo-mediale, invece, è un’area del cervello che si attiva quando ci si mette nei panni dell’altro. Ecco allora che, da come queste aree si sono attivate nei due gruppi di soggetti, i due ricercatori hanno evidenziato che il comportamento di isolarsi e il sentimento della solitudine riducono l’attività dello striato ventrale, e a sua volta lo striato ventrale aumenta il senso di isolamento. In altri termini, la solitudine si sviluppa all’interno di un “circolo vizioso” nel quale, chi si sente solo, isolato e in solitudine, per paura di un rifiuto si difende dall’ambiente esterno e sviluppa comportamenti negativi, e così non fa altro che rafforzare la solitudine e l’isolamento che teme, visto che poi l’ambiente esterno risponde e si adegua ai comportamenti negativi (Cacioppo J. T., Norris C. J., Decety J., Monteleone G., Nusbaum H., 2009).
In uno studio successivo, pubblicato nel 2014 sullo Psychological Bullettin, condotto da Stephanie e John Terrence Cacioppo, coppia nella vita e nella ricerca neuroscientifica, si è sondata l’attività cerebrale delle persone sofferenti di solitudine e si è evidenziato un funzionamento cerebrale specifico. I due ricercatori hanno selezionato due gruppi di soggetti, uno composto da persone sofferenti di solitudine e l’altro no. Ai due gruppi veniva chiesto di identificare delle parole con significato di tipo “sociale”, o attraverso dei colori, o attraverso dei disegni. Ebbene, si è osservato un’aumento dell’attività cerebrale nei soggetti che soffrono di solitudine ad ogni parola con implicazione sociale negativa. Da qui i due studiosi hanno suggerito che di fronte a stimoli sociali di tipo negativo le menti delle persone che soffrono di solitudine si attivano e rispondono molto più velocemente rispetto a chi non vive questa sofferenza. È come se le loro menti fossero “iper-vigili”, ovvero allertate e sensibili rispetto a stimoli di pericolo o di minaccia sociale (Cacioppo S., Capitanio J., Cacioppo J., 2014).
In sintesi, in linea con le evidenze dei suoi studi scientifici, per lo studioso John Terrence Cacioppo, le persone che soffrono di solitudine molte volte sono loro stesse le responsabili della loro solitudine e del loro isolamento. Infatti, queste persone si lamentano spesso del fatto che gl’altri mancano loro di rispetto, non le apprezzano o non le ascoltano, ma in realtà può essere invece che gli atri reagiscano a una modalità attiva in loro. Quella modalità che si innesca per difendersi dai rifiuti sociali e che in realtà le predispone male nei confronti degl’altri e le porta ad isolarsi sempre di più. Per questo studioso il sentimento della solitudine può essere un’opportunità per sondare il proprio modo di entrare in relazione con gl’altri e di portare avanti le relazioni, così da poter diventare consapevoli delle proprie capacità relazionali e migliorarle qualora ne fosse necessario (Cacioppo J. T., Patrick W., 2009).
A tal riguardo John T. Cacioppo ha elaborato quattro semplici passi (ibidem), riassunti nell’acronimo “EASE”, per facilitare le persone ad uscire dalla solitudine cronica e a non cadere nella trappola di difendersi dai contatti sociali e così aggravare ancora di più il loro isolamento e la loro solitudine. Ecco i quattro passi:
Diventa chiaro a questo punto che non gestire la solitudine, e metterla a tacere per non sentirla, vuol dire scivolare nella dipendenza affettiva, nel bisogno insanabile di stare con una persona per poter riempire il vuoto interiore ed esorcizzare la paura di stare da soli. Questo implica l’instaurare rapporti condizionati dalla paura di essere abbandonati, dalla paura di perdere il proprio partner, e ancora, dalla gelosia morbosa, il tutto originato dalla paura di rimanere da soli. E questo tipo di relazione è solo un “tappabuchi” per la solitudine, non è soddisfacente e non è piacevole, e le probabilità che prima o poi finisca sono altissime, e il modo in cui si conclude solitamente è pessimo, con molta rabbia e risentimento.
Al contrario, gestire la solitudine, riuscendo a stare bene in sua compagnia, accogliendola e accettandola come una buona amica che dà buoni suggerimenti, è una grande e soddisfacente conquista. E vuol dire un sacco di cose:
In poche parole la solitudine ci dà l’opportunità di conquistare la nostra autonomia. Ci pone di fronte alla consapevolezza di chi siamo, cosa stiamo facendo e se stiamo facendo bene, e in questi termini ci permette di migliorarci e di sviluppare a pieno le nostre potenzialità, diventando così autonomi e indipendenti. Se da un lato ci fa soffrire mettendoci in contatto con i vuoti e le mancanze dentro di noi, dall’altro quei vuoti e quelle mancanze sono segnali preziosi che ci indicano cosa ci serve per stare bene, ci ricordano dei nostri desideri e dei nostri sogni, quindi ci riportano a noi e alle nostre migliori risorse per poterli raggiungere . In sintesi, gestire la solitudine vuol dire guardare questo sentimento come un’ospite che viene a darci delle indicazioni per migliorare la nostra vita, ci viene a dire che dentro di noi ci sono dei vuoti che hanno bisogno di essere colmati, e che per colmarli non si può attingere all’esterno, sono vuoti interiori e si possono riempire solo con ingredienti interiori, e questi ingredienti sono le proprie risorse, le proprie capacità, i propri obiettivi e i propri progetti. La solitudine è un invito a guardarsi dentro per poter fare meglio ciò che forse non si sta facendo così bene, è un invito a cambiare e a migliorare se stessi e la propria vita, e soprattutto, il proprio modo di rapportarsi a se stessi, agli altri e al mondo esterno.
Bibliografia essenziale
Cacioppo J. T., Norris C. J., Decety J., Monteleone G., Nusbaum H.(2009), In the Eye of the Beholder: Individual Differences in Perceived Social Isolation Predict Regional Brain Activation to Social Stimuli, Journal of Cognitive Neuroscience, 21(1): 83-92.
Cacioppo J. T., Patrick W. (2009), Solitudine. L’essere umano e il bisogno dell’altro, Il Saggiatore, Milano.
Cacioppo S., Capitanio J., Cacioppo J. (2014), Toward a neurology of loneliness, Psychological Bullettin, 140 (6): 1464-1504.
Fonte delle immagini
Web del 30 Aprile 2018. Fonte: https://www.arteworld.it/wp-content/uploads/2017/08/LAssenzio-Edgar-Degas-analisi.jpg